RELAZIONE STORICA ARSIA

 

Provincia di Arezzo

Assessorato Agricoltura

La Patata Rossa di Cetica: aspetti storici ed agronomici

 

a cura di Michela Parri, con la collaborazione di Marco Noferi - dicembre 2003

 

1.  Nome del prodotto

E’ comunemente denominata Patata Rossa di Cetica (sinonimi: Patata Rossa del Casentino, Patata Rossa del Pratomagno) e si tratta di una vecchia varietà di patata del Casentino, come è risultato dalle ricerche effettuate in questi anni dal Di.S.A.T. (Dipartimento Scienze Agronomiche e Gestione del Territorio Agroforestale) dell’Università di Firenze, in collaborazione con l’Assessorato Agricoltura della Provincia di Arezzo e la Pro Loco I Tre Confini di Cetica.

 

2.  Descrizione del prodotto

La Patata Rossa di Cetica si contraddistingue nettamente dalle altre varietà di patate coltivate nel territorio italiano in primo luogo per l’aspetto dei tuberi che sono di media pezzatura con forma rotondo ovale ed epidermide liscia di colore rosso intenso e con occhi profondi dal fondo rosso scuro. La pasta è di color bianco latte, con grana fine e compatta e presenta frequentemente delle venature di colore rosso in corrispondenza delle cellule del cambio ed in prossimità dei germogli. Dalle indagini genetiche effettuate è state dimostrata l’appartenenza della Patata Rossa di Cetica alla specie Solanum tuberosum subsp. tuberosum.

La pianta nella porzione epigea ha steli mediamente numerosi di colore bruno violetto, alti solitamente 60-70 cm, a sezione triangolare. Gli steli principali sono di dimensioni medio grandi e lungo le spigolature presentano delle lamine di colore verde; gli steli secondari sono più sottili con alcune piccole maculature chiare. L’apparato fogliare è formato sia da foglie semplici che composte, quest’ultime sono di dimensioni medio grandi, con la porzione superiore dell’asse centrale di colore rosso e quella inferiore di colore verde chiaro. Lungo l’asse centrale le foglie più grandi sono alternate ad altre di dimensioni più piccole. Le foglie semplici sono di media grandezza, con forma oblunga e dal profilo aperto, presentano nervature evidenti di colore verde chiaro. Si è osservato su un certo numero di piante che nella porzione apicale dei fusti le foglie terminali presentano le lamine di dimensioni ridotte rispetto al resto della pianta. Non sempre le piante arrivano a fiorire, in tal caso i fiori hanno corolle di colore lilla roseo e margini pubescenti di colore bianco e sono organizzati in infiorescenze ramificate che rispetto ad altre varietà di patata hanno una bassa frequenza di fiori. Il peduncolo fiorale presenta una colorazione antocianica medio debole; i sepali sono verdi, di forma allungata e con densa peluria bianca.

Per le caratteristiche morfologiche descritte è possibile attribuire l’appartenenza della Patata Rossa di Cetica al gruppo del tipo Surprise (Salaman, 1926).

I dati ottenuti dalle analisi effettuate su un campione di Patata Rossa di Cetica hanno evidenziato buoni valori di lavabilità, sostanza secca e imbrunimento dopo frittura. Al contrario per quanto riguarda la valutazione dell’A.B.C. (After Cooking Blackening) tutti i tuberi dopo cottura a vapore (come già osservato in passato su altri campioni), hanno manifestato annerimento diffuso.

L’elevato valore di sostanza secca e soprattutto il valore d’imbrunimento dopo frittura molto buono (valore 2, pari a stick di colore giallo e assenza d’imbrunimenti), suggeriscono come destinazione d’uso culinario prevalente per questo prodotto la frittura; questa varietà infatti, proposta sia come stick che come chips, ha mostrato elevati valori di croccantezza e gusto tipico.

Una valutazione separata deve essere fatta per il consumo di questo prodotto attraverso la preparazione di piatti tradizionali, come tortelli e gnocchi ad esempio, valutandolo nel suo insieme; vivande che godono di un esteso consenso tra i consumatori che partecipano alle numerose iniziative gastronomiche organizzate annualmente a Cetica.

 

3.  Aspetti agronomici

La Patata Rossa di Cetica rispetto ad altre varietà non richiede operazioni colturali particolari, adattandosi alle normali tecniche agronomiche richieste dalla patata in generale, la messa a dimora dei tuberi avviene nei mesi di marzo – aprile, a seconda dell’andamento stagionale. Trattandosi di una varietà che presenta dormienza prolungata, è necessario intervenire opportunamente affinché i tuberi siano pronti alla semina per i mesi suddetti.

Nel dettaglio si riportano le indicazioni elaborate dal Di.S.A.T. nel corso delle due campagne sperimentali effettuate a Cetica nel 2002 e nel 2003.

  • preparazione del terreno - il periodo durante il quale effettuare le lavorazioni e la profondità dell’aratura dipendono dalla natura del suolo e dalle colture che hanno preceduto la messa a dimora dei tuberi, in generale su terreni più pesanti l’aratura può raggiungere 40-45 cm di profondità, mentre in quelli sciolti non è necessario andare oltre i 30-35 cm;
  • preparazione del tubero seme - il materiale da utilizzare dovrà pervenire da colture dedicate; prima della messa a dimora (circa 30 giorni), i tuberi vanno messi in condizioni favorevoli alla germogliazione (temperatura 16-18 °C, luce diffusa e umidità pari a circa l’85%). Saranno idonei quando presenteranno germogli tozzi, robusti e ben formati e di circa 1,5-2 mm; non andranno utilizzati tutti quelli che presenteranno germogli filati e comunque fuori dalla norma;
  • messa a dimora dei tuberi per produzioni da destinare al consumo - andranno utilizzati tuberi interi e di pezzatura uniforme; la densità dipenderà dalla taglia del tubero e dovrà essere di circa 5-6- tuberi per m2. con sesti di 70 cm tra i solchi e di 25 cm lungo il solco. La messa a dimora dei tuberi dovrà avvenire nei mesi di marzo e aprile, a seconda dell’andamento stagionale;
  • concimazione - è tra gli aspetti agronomici quello più importante in grado di influenzare fortemente la qualità e la quantità della produzione e le valutazioni sulle effettive necessità andranno fatte nei confronti di ogni singolo appezzamento in base al suo precedente utilizzo. In generale si segnala la necessità di fornire delle concimazioni rispondenti alle specifiche esigenze della coltura, in particolare rispetto alla fornitura di sostanze azotate che, se in eccesso, determinano uno squilibrio nella crescita della pianta a scapito della formazione e produzione di tuberi; le piante più lussureggiante inoltre possono mascherare la presenza di virosi e la produzione di tuberi che ne deriva può presentare anomalie ed è più soggetta ad attacchi parassitari durante la conservazione. Non meno influente è l’effetto di somministrazioni eccessive sia nei confronti delle immissioni nell’ambiente sia rispetto alla maggiorazione superflua dei costi di produzione.

In base ai risultati ottenuti nelle prove sperimentali una formula di concimazione potrebbe essere: 100-120 Kg/ha di azoto, fosforo e potassio. Le distribuzioni dell’azoto è preferibile farle in due momenti (30-40% alla semina) e il resto in copertura in corrispondenza delle rincalzature e comunque in corrispondenza della tuberizzazione. Tale indicazione, come ricordato in precedenza, va comunque valutata in base alle effettive necessità di ogni singolo appezzamento;

  • rincalzatura – è unapratica utile alla formazione di radici e tuberi e apporta benefici diretti sul controllo delle malerbe e sulla riduzione delle perdite di acqua per capillarità, però se eseguita non correttamente può essere anche rischiosa in quanto riduce la vigoria delle piante e può favorire lo sviluppo di alcune fitopatie (Rhizoctonia solani e Erwinia spp.). Si può intervenire in tre diversi momenti: prima che inizi la tuberizzazione possono essere utili due interventi, il primo all’inizio della formazione dei germogli se l’andamento sfavorevole delle precipitazioni e delle temperature avesse determinato nel terreno la formazione di una crosta superficiale, il secondo all’emergenza delle prime 4 foglie della pianta. Nel caso in cui l’andamento stagionale non avesse richiesto l’esecuzione del primo intervento descritto, si potrebbe effettuare un’ulteriore rincalzatura prima che lo sviluppo epigeo determini la chiusura dei solchi;
  • irrigazione – non essendo una specie dotata di meccanismi di adattamento agli stress idrici, l’irrigazione è un intervento in grado di condizionare la qualità e la quantità della produzione. Le fasi di maggiore necessità in acqua sono alla stolonizzazione, alla formazione dei tuberi e all’ingrossamento degli stessi. Come già riportato per la concimazione, anche un eccessivo apporto irriguo, oltre ad aumentare i costi, provoca danni alla produzione a causa della maggiore possibilità che si verifichino marciumi radicali e per l’ingrossamento dei tuberi a discapito del contenuto di sostanza secca, comportando anche difficoltà nella conservazione degli stessi. Ai danni alle coltivazioni si aggiungano quelli a carico del suolo con possibili fenomeni di erosione e dilavamento.

Prove sperimentali fanno ritenere che restituzioni di volumi d’acqua pari al 75% dell’E.t.p. siano sufficienti; in linea generale si ricorda che i volumi d’acqua forniti con ciascun intervento non dovrebbero superare i 30 mm.

  • controllo delle malerbe - la presenza delle infestanti nelle colture di patata, oltre a comportare perdite di produzione per gli effetti competitivi esercitati dalle stesse malerbe, crea un ambiente favorevole allo sviluppo di fitopatie e di insetti. Alcune specie (amaranto e chenopodio), ospitando alcuni vettori, possono essere la causa di diffusione di virosi nella coltura. Pertanto il problema va risolto ricorrendo a sistemi integrati di lotta che contemplano operazioni di sarchiatura, rincalzatura e appropriate rotazioni;
  • controllo dei parassiti - la qualità della produzione dei tubero è condizionata fortemente dal suo stato sanitario, pertanto la difesa dai parassiti dovrà essere affrontata contemporaneamente a livello di sistema di coltivazione (rotazione adeguata, efficienza degli interventi colturali e monitoraggio continuo) e a livello di singolo parassita con l’uso di prodotti specifici. A causa dell’impatto che alcune tecniche di lotta hanno sul territorio non dovrà più essere consentita l’effettuazione di interventi a “calendario” ma si dovrà intervenire in relazione al reale rischio e in seguito alla determinazione delle “soglie di infestazione”. Per fare questo è necessario che venga messo a disposizione degli agricoltori un servizio di assistenza tecnica che guidi i produttori sull’epoca di intervento, sulla scelta della tipologia e sui prodotti fitofarmaci da impiegare;
  • operazione di pre-raccolta - consistente nella distruzione anticipata dei cespi allo scopo di avere tuberi con periderma maggiormente ispessito, riducendo anche il rischio di ferite. Questa dovrà avvenire almeno 10-15 giorni prima della raccolta;
  • raccolta - può essere eseguita con diverse modalità, nei piccoli lotti e in aree più difficilmente accessibili spesso si ricorre all’operazione manuale;
  • conservazione; - dopo la raccolta i tuberi vanno puliti dai residui di terra e, eliminati quelli eventualmente danneggiatisi durante le operazioni di raccolta, disposti in locali ventilati e bui. Per la conservazione delle patate da pasto le temperature migliori per la conservazione sono comprese tra 8 e i 12° C in quanto temperature inferiori potrebbero variarne le caratteristiche organolettiche. Come già riportato, trattandosi di una varietà tardiva possono essere evitati i trattamenti antigermoglianti.

 

Ulteriori accorgimenti andranno utilizzati per la produzione di tubero seme da effettuare sia sotto tunnel (Screen house) che in pieno campo in quanto dovranno essere utilizzati terreni nei quali non siano state coltivate altre patate da almeno 4 anni, siti ad una distanza di almeno di 200 m da piante da frutto, da altri ortaggi, da erba medica e da altri campi destinati alla coltura di patate. Le aree più adatte alla produzione di tubero seme sono quelle protette da barriere naturali e ubicate a quote superiori ai 700 m s.l.m. Poiché i tuberi prodotti dovranno avere dimensioni medie si procederà alla distruzione anticipata dei cespi precedentemente a quanto indicato per la produzione di patate da consumo. Successivamente alla raccolta si procederà alla divisione dei tuberi in tre classi diametriche: diametri inferiori a 28 mm, diametri compresi fra 28.1 e 35 mm, diametri compresi fra 35.1 e 45 mm, diametri compresi fra 45.1 e 55 mm, diametri maggiori di 55 mm. La conservazione dei tuberi andrà fatta in ambienti ventilati e bui con temperature comprese tra 4 e i 6° C.

 

4.  Descrizione dell’area di produzione

La Patata Rossa di Cetica attualmente è prodotta solo in alcune aziende familiari e da singoli coltivatori (utilizzando tecniche tradizionali tramandatesi secondo le consuetudini storico - agronomiche del territorio), ubicati nella località di Cetica, frazione montana del comune di Castel San Niccolò, situata sulla dorsale del Pratomagno nella porzione nord occidentale del Casentino, in destra idrografica del fiume Arno.

L’intero territorio comunale si estende per poco più di 83 kmq con morfologia prevalentemente montana e quote comprese tra 348 e 1593 m s.l.m. ed è amministrativamente compreso nella provincia di Arezzo. Oltre al capoluogo Strada in Casentino, situato nella porzione di fondovalle, vi sono nel comune numerose frazioni abitate tra le quali le principali sono Borgo alla Collina e Cetica, dai connotati molto differenti tra loro: la prima sorge sulla collina (da cui il nome) che separa la valle del Torrente Solano dal corso dell’Arno; la seconda, situata sul versante sinistro della valle del Solano, è formata da più nuclei abitati sparsi tra boschi e coltivi. Gli altri insediamenti, tutti di fondazione remota, si trovano sia lungo la direttrice che collega il comune con Montemignaio e che ripercorre il vecchio tracciato esistente già in epoca romana, sia sui presìdi di media montagna, storicamente legati alle attività agricolo forestali e pastorali.

Negli intenti dell’Associazione Patata di Cetica che dal Novembre 2003 raccoglie i produttori di Cetica, è prevista l’individuazione di un’area di coltivazione più vasta, localizzata sul versante sinistro del Pratomagno casentinese nei comuni di Montemignaio, Castel San Niccolò, Poppi, Ortignano Raggiolo, Castel Focognano e Talla: tale area corrisponderebbe, a memoria d’uomo, a quella dove storicamente si è sviluppata la produzione della Patata Rossa di Cetica.

Come tutte le coltivazioni di montagna, anche la Patata Rossa di Cetica esprime un forte legame con l’ambiente e le stesse pratiche e tecniche agronomiche tradizionali sono strettamente influenzate dalle particolari condizioni ambientali (appezzamenti di piccole dimensioni, assenza di meccanizzazione, concimazioni organiche, lavorazioni manuali, scambio sementi, ecc…).

Il territorio di riferimento storico di questa coltivazione, è costituito per buona parte dal bacino imbrifero del Torrente Solano, affluente destro del Fiume Arno che ha le sue sorgenti sul Pratomagno e discende verso valle tra ripidi versanti solcati dai corsi d’acqua minori. Sotto l’aspetto geologico si ha la netta prevalenza di Arenarie che si trovano estesamente su tutto il versante del Pratomagno, associate a Detriti di Falda derivati per lo più dall’alterazione del substrato roccioso arenaceo. L’area a maggiore variabilità geologica è localizzata nella porzione nord occidentale con Alluvioni Terrazzate nel basso corso del Solano e lungo il corso dell’Arno, in prossimità di Strada e di Borgo alla Collina; Calcari e Brecciole del Monte Senario formano la dorsale dove sorge l’abitato di Borgo alla Collina. A quanto sopra descritto si aggiungano i Depositi Fluviali localizzati lungo il corso del Solano, a monte dell’abitato di Prato di Strada.

L’area è caratterizzata da estese superfici boscate soprattutto lungo i medi versanti montani, dove i castagneti (Castanea sativa Miller) si alternano alle cerrete (Quercus cerris L.) ed alle abetine (Abies alba Miller), quest’ultime particolarmente diffuse assieme alla duglasia (Pseudotsuga menziesii Franco) e al pino nero (Pinus nigra Arnold) sulla dorsale sovrastante l’abitato di Cetica che risale verso il Pratomagno e derivanti da rimboschimenti su superfici utilizzate prevalentemente a pascolo. Alle quote inferiori, dove si ha una maggiore commistione con l’attività agricola, i querceti di roverella (Quercus pubescens Willdenow), le pinete di pino nero e di pino marittimo (Pinus pinaster Aiton) si alternano ai seminativi.

La vegetazione lungo i corsi d’acqua principali è formata da popolamenti misti di ontano nero (Alnus glutinosa (L.) Gaertner), pioppo nero (Populus nigra L.) e salice bianco (Salix alba L.), in associazione con salici arbustivi. Questi ambiti forniscono anche le condizioni ideali per le latifoglie più esigenti, specialmente tra i 600 e i 1000 metri di quota: acero di monte (Acer pseudoplatanus L.), tiglio montano (Tilia plathyphyllos Scopoli), frassino maggiore (Fraxinus excelsior L.), ciliegio (Prunus avium L.), sorbo degli uccellatori (Sorbus acuparia L.) e sorbo domestico (Sorbus domestica L.). Alle quote inferiori è diffusa invece la Robinia (Robinia pseudacacia L.) che a tratti può anche prevalere sulle specie più prettamente igrofile.

A completare questo insieme sono le praterie di alta quota del Pratomagno, che si sviluppano lungo la dorsale a partire da 1200 m di quota e sono formate da una consociazione tra festuca rossa (Festuca gr. rubra), avenella (Avenella flexuosa L.) e nardo (Nardus stycta L.). Storicamente, attorno a queste praterie si è sempre sviluppata una intensa attività pastorale, che riguardava sia le comunità rurali del versante valdarnese che quelle del versante casentinese.

 

5.  Aspetti storico-sociali ed economici: la patata ed il suo territorio

L’abitato di Cetica (attualmente 464 abitanti) è un tipico insediamento delle pendici casentinesi del Pratomagno; come precedentemente riportato, ricade amministrativamente nella provincia di Arezzo, ma si trova a pochi chilometri dai confini fiorentini. Il suo nome deriva, come per altri toponimi italiani, dall’attività un tempo preminente e legata alla presenza di folti boschi: la ceduazione, cioè il taglio periodico di latifoglie per il ricavo principale di legna da ardere. Inizialmente tale nome fu dato solo alla montagna “Mons ceduus” e successivamente all’abitato che vi sorse, denominato Cietiche o Cietica, modificatosi nell’attuale Cetica. L’organizzazione dell’edificato della comunità era per gruppi di case sparse sul versante, ciascuno denominato in base alla famiglia che vi abitava: Casa del Renzi, Casa del Doni, Casa di Angiolo…denominazioni nei secoli abbreviate (Carrenzi, Casandoni, Callagnolo…), associate ad altre legate ad esempio a caratteristiche morfologiche del terreno (“La Valle”, “Vallazzi”, “Poggio”, “Poggiolo”…), alla vegetazione (“Pruno”, “Castagneto”, “Perino”…) e ai corsi d’acqua (“Rimaggio” da Rio Maggiore); tuttora la struttura urbanistica del paese rispecchia le sue origini e le vecchie denominazioni sono ancora quotidianamente impiegate e compaiono su appositi cartelli che “ufficializzano” l’ingresso a ciascun nucleo di case.

Le prime notizie attestanti l’esistenza dell’abitato risalgono ai primi del X secolo dopo Cristo quando si riporta che a Sancti Angiolo, Sancti Pancratii e Sancte Marie de Cietica, vivevano 1000 abitanti; sempre della comunità di Cetica faceva parte l’abitato di fondovalle Pagliariccio. Era il periodo durante il quale in tutto il Casentino stava prendendo campo l’incastellamento e tra i feudatari che esercitavano il loro potere nella valle furono i Conti Guidi a prevalere, sfaldando la funzione aggregante svolta in precedenza dalle Pievi ed edificando una fitta maglia di castelli tra i quali quelli ubicati nella valle del Solano a Borgo alla Collina, Castel S. Niccolò, Battifolle e Cetica. Il dominio dei Guidi si protrasse fintanto che il casato non fu inviso alla Repubblica Fiorentina che, dopo diversi atti politici intenti ad indebolire politicamente la famiglia, nel 1289 gli inflisse nella piana di Campaldino (Poppi) una pesante sconfitta in battaglia, nella contesa tra Guelfi fiorentini e Ghibellini aretini ricordata anche da Dante Alighieri nella sua Divina Commedia. Sempre più numerose si facevano le incursioni fiorentine nel territorio casentinese e nel Giugno del 1290 un esercito della Repubblica di ritorno a Firenze dopo un assedio alla città di Arezzo attaccò e abbatté il castello di S Angelo a Cetica denominato anche di Guardacroce.

Il dominio dei Guidi nella valle del Solano si protrasse ancora fino al 1348 quando le comunità di Vado (attuale capoluogo), S. Angelo a Cetica, S. Pancrazio di Cetica e Garliano insorsero contro il conte Galeotto, figlio di Guglielmo Novello e si sottomisero alla Repubblica Fiorentina.

Con la ribellione anche delle comunità di Ortignano, Giogatoio ed Uzzano ci fu da parte di Firenze un’unificazione del territorio sotto la dizione di “Montanee Fiorentine partium Casentini” avente come riferimento le comunità di Vado, S. Angelo a Cetica, S. Pancrazio di Cetica e Garliano.

 

I popoli della valle del Solano, pur riuniti in un unico comune, conservarono ciascuno la propria identità amministrativa: per ciascuna comunità esisteva un parlamento ed era rappresentata da un sindaco e tre consiglieri ai Consigli Generali che si tenevano a San Niccolò.

Fu il 5 Settembre 1776 che venne ufficialmente costituito il Comune di Castel San Niccolò che, oltre alle comunità originarie, comprendeva Borgo alla Collina e Montemignaio. Tale estensione territoriale si modificò ulteriormente nel 1808 quando una legge napoleonica costituì Montemignaio comune autonomo e nel 1868 quando vennero annesse le parrocchie di Caiano, Ristonchi, Battifolle e Vertelli, staccate dallo stesso Montemignaio.

 

POPOLAZIONE RESIDENTE

 

1551

1745

1833

1845

1855

1865

Cetica S. Angelo

872

419

476

612

585

664

Cetica S. Maria

43

24

100

112

139

442

Cetica S. Pancrazio

759

592

529

565

660

684

Totale

1.710

1.035

1.105

1.289

1.384

1.790

Tabella 1: andamento della popolazione residente a Cetica tra il XVI e XIX secolo (dati tratti da E. Repetti - Dizionario geografico storico della Toscana e dall' Indicatore Topografico della Toscana Granducale).

 

Intanto la fama di Cetica era andata diffondendosi anche grazie alla sua stazione termale molto frequentata dal Valdarno, dal Casentino e dalla Romagna situata a 900 m s.l.m., a pochi chilometri dall’abitato. Era una località molto nota fin dai tempi antichi, citata anche nell’opera “Le virtù dei Bagni d’Europa” scritta nel XVIII secolo da Giovanni Ebreo dove si riporta che l’acqua di questa località “…sana ogni rogna e scabbia, rompe la pietra della vescica e delle reni, è buona per la febbre calda, alleggerisce e modifica il corpo da ogni infermità, leva le tenebre e la albugine dagli occhi, fa ritornare il bel colore vermiglio, risana il fegato e la milza ed è buono da mezzo maggio a mezzo ottobre…” (Niccolini). Anticamente era conosciuto come Le Piscine ma nel 1205 venne abbandonato perché uno smottamento interruppe la fuoriuscita dell’acqua. Poi dal 1686 cominciò a risgorgare l’acqua e venne ripristinato l’albergo che tuttora è in funzione durante la buona stagione.

La coltivazione della patata in Casentino era stata incentivava da un editto emanato dai Lorena agli inizi del XIX secolo che ne esortava la coltivazione allo scopo di porre rimedio alle numerose carestie che affliggevano il Granducato e, proprio a seguito di una diffusa epidemia di tifo verificatasi nel 1816, seguita da una grave carestia, questa pianta cominciò ad essere coltivata più diffusamente, soprattutto nelle zone montane. Ma persisteva una certa reticenza nell’utilizzazione di questo tubero per l’alimentazione umana tanto che nella Tavola Geografico Fisica e Storica del Valdarno Casentinese presente nell’atlante redatto nel 1832 da Attilio Zuccagni Orlandini si riporta che si la coltura è diffusa in tutta la valle ma anche che “per lo meno si giova di esse con sommo utile per ingrasso del bestiame” (A. Zuccagni Orlandini). Un tale atteggiamento non era esclusivo del popolo casentinese ma la reticenza a cibarsi delle patate, era stato un effettivo ostacolo al reale miglioramento delle condizioni alimentari della popolazione italiana che si prospettava con questa nuova coltura. D’altronde anche in Francia fino 1785 la patata era poco diffusa e affatto utilizzata in gastronomia e fu necessario un minuzioso ed abile intervento di promozione effettuato da Parmentier che, tornato in patria dopo un periodo di prigionia in Germania dove si era nutrito di questi tuberi (erano infatti abbondantemente utilizzati nelle cucine delle carceri), riuscì a lanciare questo prodotto solo dopo aver organizzato un banchetto alla presenza di Luigi XVI dove ben nove portate ed il liquore erano fatti con le patate.

I dati sui raccolti di patate in terra casentinese registrano un progressivo aumento durante la seconda metà del 1800, arrivando ad essere agli inizi del secolo successivo una coltura comune tra quelle da rinnovo. Nell’indagine effettuata da Guido Pontecorvo nel 1932 sull’economia rurale nel Pratomagno e nell’Appennino Casentinese per conto della Regia Accademia dei Georgofili di Firenze, si trova la coltura delle patate nelle pratiche agronomiche diffusamente applicate sui seminativi stabili localizzati attorno agli abitati dove veniva effettuata l’alternanza tra la semina di cereali (prevalentemente grano) e un anno di rinnovo durante il quale venivano coltivate per lo più patate o anche leguminose da granella, granoturco o erbai primaverili estivi. Nei seminativi discontinui ubicati sui versanti montani, la prevalenza era sempre data dalla coltura del grano, seguita ancora da patate oppure segale, orzo, fagioli e granturco; sempre associate alle colture a scopo alimentare erano i seminativi foraggieri prevalentemente a leguminose. Significativi sono anche i dati sulla produttività, ad esempio nel 1930 si registrano valori medi di 50 q.li ad ettaro contro gli 11 q.li del grano.

L’importanza di questo prodotto ormai non era solo per l’alimentazione quotidiana delle famiglie coltivatrici (lessate o cotte sotto la cenere erano consumate diffusamente durante i pasti, talvolta anche a colazione e facevano da base per molti piatti tradizionali come nel ripieno dei tortelli o nelle minestre di verdure, superando anche le castagne, fino ad allora alimento principale della popolazione montana) ma anche come merce da vendere ai mercati o, nei casi in cui vi fosse una buona rete viaria di accesso agli abitati, ai grossisti.

In questo periodo Cetica aveva già assunto un proprio ruolo di principalità, tanto nella programmazione delle successioni agrarie quanto nel variato impiego gastronomico presso le comunità locali. Nella generale penuria delle preparazioni gastronomiche, la “Patata di Cetica” cominciava ad essere diffusamente apprezzata che l’abitato, già ampiamente rinomato fin dal secolo precedente per la coltivazione di ottimi fagioli bianchi, divenne il luogo di produzione per eccellenza delle patate nel Casentino, conquistando rapida fama che tuttora gode nei ricettari tradizionali della cucina toscana ove si raccomanda l’uso delle patate di Cetica rispetto alle altre comunemente in commercio: “…nel Casentino c’è un terreno che è particolarmente adatto per la coltivazione della patata, è quello intorno a Cetica dove, dice Pietro Porcellotti, si raccolgono anche “quei delicati legumi di tanto sapore e di tanto nome in Toscana” (G. Gianni); “…occorrono patate di pasta bianca (di Cetica) che vanno poste sotto la brace proteggendole con la cenere o messe in forno dopo la cottura del pane…” (Da Monte - 1995); …la gente di Cetica seppe sfruttare non solo la sua terra ma anche l’andamento climatico caratterizzato da abbondanti piogge primaverili - estive e l’aria secca e frizzante per mettere a punto alcune pregiatissime varietà di fagioli e di patate. I ceticatti per lo più <<lavoratori del suo>>, almeno a partire dal 1700, seppero acclimatare i due prodotti americani cosi` bene che divennero tanto ricercati dai buongustai di tutta la provincia e da una nutrita schiera di fiorentini da dare la certezza di uno smercio sicuro ad ottimi prezzi…”(Da Monte - 1985); “…i fagioli e le patate di Cetica hanno goduto in passato e godono tutt’oggi una certa rinomanza…”(Niccolini); “…famose sono le castagne del Casentino, nonché i fagioli e le patate di Cetica…”(AA.VV. Guida del Casentino).

Numerose testimonianze orali di produttori dell’area (az. Poerio Benevieri, az. Enzo Magni Vannini, az. Gori Adriano, az. Sereni Paolo, az. Borghini Adriano, …), riferiscono che nel periodo tra le due guerre mondiali, la coltivazione era imperniata sull’uso di varietà locali, di solito molto tardive e prevalentemente a pasta bianca. Quelle coltivate nell’area di Cetica erano cinque, e tali rimasero fino all’introduzione (attorno al 1960) di varietà di origine commerciale - industriale:

1)  la “Quarantina”a pasta bianca e con buccia liscia di colore marrone, di forma allungata ma non schiacciata e ricca di protuberanze. La maturazione era precoce, impiegando circa 40 giorni, caratteristica che le conferì il nome;

2)  la “Polpetta” a pasta bianca farinosa con buccia marrone e leggermente squamosa, di forma ovale allungata, leggermente schiacciata, somigliando così ad una polpetta. La maturazione era tardiva.

3)  una varietà a pasta bianca molto produttiva e molto apprezzata anche per il commercio;

4)  la varietà “dall’Occhio Fondo” a pasta e buccia gialla molto tardiva e produttiva; era seminata a fine maggio dopo il trifoglio e usata principalmente per l’alimentazione animale;

5)  la “Rossa di Cetica” diffusa principalmente per uso personale, molto utilizzata in cucina ma non commercializzata a causa del profondo “occhio” che ne scoraggiava l’acquisto ritenendola una varietà difficile da sbucciare. Era invece molto apprezzata tra la popolazione  per il sapore leggermente salino della pasta che la rendeva decisamente appetibile anche scondita e per la tardiva germinazione che la rendeva utilizzabile fino alla stagione successiva quando veniva sostituita con il nuovo raccolto della “Quarantina”.Veniva piantata ai primi di maggio a tolta a fine settembre

Tra tutte le varietà sopra riportate, la “Rossa di Cetica” è l’unica tuttora presente, conservatasi presso alcuni coltivatori proprio grazie alle sue particolari caratteristiche.

Erano anni nei quali le attività economiche principali erano l’agricoltura, la pastorizia e le utilizzazioni forestali. Nonostante il diffondersi di attività industriali nelle zone di fondovalle (che nel comune di Castel San Niccolò riguardavano prevalentemente i settori della tessitura, della lavorazione della ceramica, della concia delle pelli e della lavorazione del legname), la popolazione residente a Cetica, il più importante tra gli abitati montani del comune, era per la maggior parte dedita ad attività di tipo stagionale consistenti prevalentemente nel taglio del bosco, nella produzione di carbone vegetale e nella pastorizia, lavori che nei mesi invernali venivano svolti lontano dal Casentino, per lo più in Maremma o nel litorale laziale (nel 1930 il dato percentuale di popolazione dedita ad attività lavorative stagionali fuori provincia per il comune di Castel San Niccolò è il più alto di tutto il Casentino e, calcolando solo i lavori di tipo forestale, si attestava sul 40,6% della popolazione). Per un periodo di circa sei mesi (variabile con l’andamento stagionale e con le conseguenti pratiche agronomiche legate alle coltivazioni e alla raccolta delle castagne) il paese si spopolava rimanendo abitato prevalentemente da persone anziane e donne con bambini ancora piccoli (quelle che potevano invece seguivano i mariti nei luoghi di lavoro invernali occupandosi della cucina e di altre faccende anche per quelli della squadra che non erano sposati o le cui mogli erano dovute rimanere a casa). Si trattava di piccoli proprietari che oltre alla casa dove abitavano possedevano dei campi terrazzati, localizzati principalmente vicino alle abitazioni, intervallati da meli, peri, ciliegi e qualche filare di vite; altro possedimento era una parte più o meno estesa di castagneto, generalmente sufficiente a ricavare legna e castagne per i bisogni familiari. Era una classe denominata “proprietà lavoratrice” molto diffusa negli abitati montani dell’Alto Casentino che, tornata a casa, si dedicava alla coltivazione dei campi e alla cura del castagneto oltre all’allevamento di qualche pecora, di un maiale, una capra e degli animali da cortile. Ogni famiglia inoltre possedeva almeno un animale da soma utilizzato dalle piccole mansioni quotidiane, ai lavori in bosco e nei campi e che cavalcato consisteva nell’unico mezzo di trasporto.

Oltre a queste proprietà particellari, erano a Cetica alcune unità poderali (una di queste della curia che gestita da mezzadri provvedeva ai bisogni del prelato) e una fattoria appartenente ai Ponticelli, famiglia che aveva diversi possedimenti anche in Maremma. Quest’ultima era organizzata in cinque poderi, tre dei quali situati in stretta vicinanza con l’abitato e due nei campi montani de La Badia; anche l’estensione di castagneto era consistente ed erano della proprietà ben cinque seccatoi.

Dalle testimonianze orali raccolte si è potuto ricostruire la tipologia delle colture che venivano praticate nella densa maglia produttiva che allora caratterizzava l’abitato e la montagna soprastante: tra i seminativi quelli di maggior importanza erano il grano, le patate e i fagioli, era inoltre una pratica diffusa quella di seminare il bolognino ad aprile nei campi di grano che una volta mietuti (solitamente non prima della fine di Luglio) successivamente davano anche un certo quantitativo di foraggio. Altri prodotti erano la segale, l’orzo, l’avena, il granoturco (quarantino e cinquantino) e il mociarino. La lavorazione dei campi solo in pochi casi poteva essere fatta con l’ausilio di animali da lavoro mentre prevalentemente le operazioni venivano fatte a mano. Era un paesaggio agrario con diverse articolazioni a seconda della quota altimetrica: nella bassa montagna (fino a 700 m s.l.m.) la vite manteneva una certa importanza fino ai confini del castagneto e del pascolo erborato; era a queste quote diffondeva l’estesa maglia di seminativi fatta prevalentemente su campi terrazzati intorno agli abitati, in quest’area risultava estremamente produttiva anche la coltivazione di alberi da frutto prevalentemente meli (Nesti, Rugi, dalle mele Rosse e dalle mele Panaie) e ciliegi. La coltivazione di quest’ultimi era talmente estesa che in primavera la loro fioritura formava un insolito paesaggio nella montagna; le ciliegie inoltre costituivano una parte del reddito familiare e venivano vendute ai grossisti della zona perché fossero destinate ai mercati cittadini.

Nella fascia di media montagna (tra i 700 e gli 850 m s.l.m.), si aveva la prevalenza del castagneto da frutto parzialmente alternato a boschi cedui di cerro e roverella (quest’ultima alle quote più basse e nelle stazioni con diffusi affioramenti rocciosi in prossimità dell’abitato, dette comunemente “visciai”). A queste quote si trovavano anche i pascoli cespugliati e i seminativi discontinui effettuati con la pratica del debbio ossia il taglio e l’abbruciamento degli arbusti. Vi veniva seminato prevalentemente la segale senza che il terreno venisse lavorato, dopo la semina si provvedeva a cospargere la cenere ottenuta dalla ripulitura dagli arbusti per proteggere e concimare la coltura. Per limitare i fenomeni di erosione causata dagli agenti atmosferici venivano realizzati dei solchi per la raccolta delle acque comunemente detti “passatelle” alla distanza di 1,5-2 m. La proprietà di questi appezzamenti montani era nella zona prevalentemente di tre famiglie: i Ponticelli, che come riportato in precedenza era i proprietari anche della fattoria di Cetica, i Corvi e i Gatteschi. Per l’affitto dei pascoli solitamente si pagava sia con monete ma anche con formaggi mentre per i campi seminati a segale era consuetudine lasciare al proprietario una parte del raccolto secondo un metodo denominato “di tre uno” ossia di tre covoni formati da un uguale numero d manne, uno di questi a scelta veniva preso dal proprietario del terreno.

Nelle posizioni migliori, dove si trovava più terreno si procedeva alla lavorazione con zappe e zapponi e a marzo si seminava il grano “quarantino” da raccogliere tra la fine di luglio e agosto.

Sopra agli 850 m s.l.m. predominava il faggio governato a ceduo con turni più brevi rispetto alle odierne disposizioni, qui venivano allestite le carbonaie che fornivano carbone vegetale un tempo molto richiesto sia per cucinare che per riscaldare le abitazioni delle città vicine. Oltre alle faggete alcune parti della montagna erano utilizzate per il pascolo nudo che però aveva la sua maggior diffusione sul crinale del Pratomagno dove le estese praterie a prevalenza di nardo che (localmente chiamato “erba capecchina”) venivano intensamente frequentate da Maggio a Settembre per il pascolo degli ovini. Si trattava di stazioni abbastanza povere visto il basso valore nutritivo dei nardeti che tendevano a prevalere sulle altre graminacee, proprio a causa del carico eccessivo e della poca diffusione di lavorazioni e concimazioni.

Ogni pastore aveva gregi di almeno 200-300 capi a quelle di proprietà si aggiungevano gli ovini che dal paese, venivano mandati al pascolo in montagna in “vicende” formate da 70-80 animali.

A badare le pecore andavano anche i garzoni ossia i ragazzi delle famiglie più numerose del paese e meno benestanti, quelli più bravi venivano portati durante la transumanza invernale in Maremma.

 

6. Aspetti storico-culturali e utilizzo gastronomico tradizionale

La vendita delle patate - fin quando è stata preminente l’economia agricola - era una delle principali risorse del paese di Cetica: erano vendute principalmente in Valdarno (anche barattate con olio), e nel basso Casentino (anche barattate con grano). I campi terrazzati erano lavorati prevalentemente a mano o più raramente con aratri e per le concimazioni si utilizzavano le deiezioni animali, integrate con alcune pratiche locali: “…esistono ancora tracce delle zone destinate alla coltivazione della patata: i cosiddetti “felciai”. Infatti un preliminare necessario per la preparazione del terreno consisteva nel bruciare le felci e con le loro ceneri cospargere la zona destinata a diventare una “patataia”. La cenere aveva il duplice effetto di rendere più fertile il terreno e fermare la crescita delle erbacce. Alcuni di questi felciai portano ancora il nome degli antichi proprietari…” (M. Baccianella).

Nei seminativi di montagna destinati alla coltivazione delle patate, una porzione del raccolto, prevalentemente tenuta per il seme per l’anno successivo, non veniva trasferita negli abitati ma mantenuta nei pressi dei campi scavando una buca nel terreno (solitamente delle dimensioni di 80-100 cm di profondità per 100 cm di larghezza) dove, dopo averne rivestito il fondo e le pareti di paglia di segale e di grano o di felci, venivano sistemate le patate ricoperte nuovamente con paglia, frasche o felci; l’apertura veniva poi isolata con delle zolle di terra di 20 30 cm di spessore;. Tale pratica permetteva un’ottima conservazione del prodotto fino alla primavera successiva.

I giovani del paese che portavano le pecore a pascolare in montagna, spesso per mangiare cuocevano le patate sotto la brace dei “fornelli“ ossia dei cumuli di frasche legnose ricavate dagli arbusti tagliati durante le operazioni di ripulitura dei pascoli e dei coltivi, a questa sorta di piccole carbonaie, coperte con zolle di terra, veniva dato fuoco e potevano essere usati come una sorta di forni, le ceneri ricavate erano successivamente distribuite sul terreno per concimare.

Nella memoria popolare un periodo molto significativo legato al consumo della patata è quello dell’estate del 1944, ancora oggi vivo nelle storie degli anziani della comunità di Cetica. Dopo la rappresaglia nazista che alla fine di Giugno aveva devastato il paese bruciandone le abitazioni e uccidendo civili inermi, la maggior parte della popolazione aveva trovato rifugio nei boschi vicini e da li aspettava l’arrivo degli alleati per poter rientrare in paese ed iniziare la ricostruzione delle case; uno dei pochi alimenti di quei mesi furono proprio le patate raccolte furtivamente dai campi vicini alle abitazioni devastate o nei coltivi di montagna e messe a bollire nei paioli di alluminio (il rame e il ferro erano stati da anni requisiti) sui focolai dei seccatoi attorno ai quali si erano rifugiate le famiglie. Dato il periodo di apoteosi cruenta dell’evento bellico, quell’anno i campi non erano stati curati come di consueto ed erano ricchi di erbe infestanti, tra queste le “rapastrelle” che vennero utilizzate per fare delle frittate e lo “stregolino” ingrediente di fortuna per le minestre. Prima di rientrare nei rifugi di montagna, quei pochi che a turno riuscivano ad avvicinarsi all’abitato si occupavano di questo singolare raccolto formato prevalentemente da patate non ancora giunte a completa maturazione e di erbe, che però - forse assieme alla speranza riposta allora nei tempi a venire - conservano tuttora nei ricordi degli anziani un sapore particolare.

Nei primi decenni del secolo scorso, Cetica è sempre più diventata il luogo delle patate per antonomasia, sia nel parlare corrente sia in riferimento ad eventi passati. Nell’anedottica del Casentino, si ricorda la visita del principe Umberto di Savoia. recatovisi per gustare gli ormai famosi “pomi” preparati in varie e prelibate pietanze:

“…la località di Cetica, divenuta centro importante per la coltivazione delle patate e dei fagioli e tale rimasta per lungo tempo se, ancora nel maggio 1925, l’allora principe Umberto di Savoia in visita in Casentino si recò ufficialmente a Cetica, mangiò e rimangiò fagioli e patate cotti in tutte le salse, perché i ceticatti si erano dati da fare per mostrare al meglio i loro prodotti, tanto che a un certo momento il principe non ne poté più. Fu a questo punto che un ceticatto, almeno così si racconta, con quella confidenza che nasce a tavola e messo su un sorriso complice, disse all’Augusto Ospite: Sor principe, la mangi, non faccia er bischero, tanto noi le patate si danno ai porci! E naturalmente, essendo di Cetica, parlava con la parlata dei ceticatti.

Il racconto, sicuramente inventato dai popoli vicini dimostra tuttavia come le patate di quella località (e di Montemignaio) fossero rinomate e come fossero addirittura entrate nell’immaginario popolare e nella lingua dell’alto Casentino, dov’è ancora corrente l’espressione minacciosamente scherzosa: Te le do io le patatine di Cetica!” (Da Monte).

Il piatto principale e più conosciuto per l’utilizzo gastronomico della patata è senz’altro quello dei tortelli: “…dalla Romagna arriva in Casentino il tortello…e il delicato ripieno di spinaci e ricotta  diventa ripieno di patate montagnole - appena arrivano, ai primi dell’800 - quelle di Cetica, morbide, bianche e adatte ad essere ridotte in soffice purea” (G. Gianni).

Da alcune interviste effettuate in luogo, vengono indicate queste preparazioni tradizionali:

i “Topini” ossia gnocchi di patate realizzati mescolando le patate previamente lessate e sbucciate con farina e uova intere. L’impasto ottenuto veniva poi salato e pepato e vi venivano ricavate delle strisce dalle quali si tagliavano dei frammenti di circa un cm che venivano cotti per pochi minuti in acqua bollente salata;

i “Tortelli di Patate ovvero dei ravioli rettangolari di pasta all’uovo molto sottile ripieni di un impasto a base di patate precedentemente lessate e sbucciate con aggiunta di un poco di soffritto di rigatino, aglio, prezzemolo, una punta di conserva di pomodoro, un uovo intero, sale e pepe;

la “Minestra di Patate” dove venivano cotte prevalentemente patate sbucciate e fatte a dadini e fagioli assieme alle verdure reperibili stagionalmente nell’orto;

le “Polpette di Patate fatte con patate precedentemente lessate e sbucciate con aggiunta di uova e prezzemolo e lavorate in piccole porzioni ovali schiacciate e fritte in strutto o olio di oliva.

A queste ricette si aggiungevano le preparazioni più semplici come la purea, le patate sotto cenere, le patate lessate tagliate a rondelle e condite con il prezzemolo.

Attualmente, a questi usi tradizionali, si è aggiunta la preparazione di “Frittelle di Patate” realizzate mescolando patate precedentemente lessate e sbucciate con farina, uova, zucchero semolato, lievito per dolci e scorza di limone. Con l’impasto ricavato si realizzano delle palline da friggere in olio di oliva e successivamente spolverate di zucchero vanigliato.

 

7. Dal recupero alla valorizzazione

Questa varietà di patata, tipica e fortemente legata al territorio anche per specifici usi culinari, negli ultimi anni era stata sempre più relegata ad ambiti marginali, a causa della maggiore produttività delle varietà commerciali provenienti da paesi esteri (Canada, Olanda, Scozia, etc.).

Questo abbandono colturale aveva provocato negli anni una intensa degenerazione dei tuberi che non erano sottoposti da tempo alla prassi consuetudinaria di rinnovare le sementi con tuberi prodotti nei seminativi alle quote più elevate dove più basso era il potenziale infettivo. Cosi` il materiale raccolto dal Di.S.A.T. dall’Università di Firenze era talmente attaccato da patogeni, soprattutto virus, che ha richiesto un complicato e lungo periodo di recupero. Tale risanamento inoltre è destinato a perdere la sua efficacia se questa coltivazione dovesse subire un nuovo abbandono, arrivando ad una plausibile perdita della varietà e del patrimonio di tradizioni locali legato a questo prodotto.

Nel 2003 la superficie coltivata con questa varietà è stata di circa 2 ettari, che impegnano piccole aziende; è proprio da questi piccoli agricoltori e da queste poche piante che è partito qualche anno fa il progetto di recupero della “ Patata Rossa di Cetica”, un recupero che ha attraversato fasi diverse, dal risanamento alla caratterizzazione fenotipica e genetica.

Oggi si dispone di un primo lotto di circa 20 q.li di tubero - seme, materiale che corrisponde alle caratteristiche morfologiche ed organolettiche tipiche della vecchia varietà, garantito dal punto di vista sanitario e che verrà utilizzato dagli agricoltori locali per la produzione di patate da consumo a partire 2004. Oltre alla produzione di patate destinate alla vendita nel 2004 continuerà, per il terzo anno consecutivo, la produzione di tubero seme sia in screen house da minituberi prodotti dal Di.S.A.T., sia in pieno campo.

Per la relazione del prodotto con l’economia della zona, si evidenzia che i dati dell’ultimo censimento generale dell’agricoltura effettuato dall’I.S.T.A.T. nel 2000, riportano l’esistenza di 237 aziende presenti nel territorio comunale, quasi esclusivamente a conduzione familiare, con una S.A.U. totale di 721,72 ha, dei quali 312,19 ha utilizzati per la coltura di seminativi (di questi 2,48 ha per la coltivazione di specie orticole, per un totale di 9 aziende coinvolte).

L’organizzazione delle aziende presenta aspetti diversi: i coltivi appoderati si trovano nella fascia collinare, a nord dell’abitato di Borgo alla Collina, oltre i campi distribuiti a macchia di leopardo all’interno delle aree boscate; a questi si aggiungono le piccole proprietà terrazzate di montagna, in stretta relazione spaziale con gli abitati minori ed è in quest’ultima tipologia di coltivi che viene effettuata la coltivazione della patata di Cetica, per lo più al di fuori di realtà aziendali di tipo imprenditoriale, costituendo invece un’integrazione ad altri redditi, com’è poi tipico dell’economia montana.

Negli ultimi anni, è in corso un forte processo di valorizzazione dell’abitato di Cetica attuato dalla sua Pro Loco che si impegna in diverse iniziative sia di carattere gastronomico che culturale, legate alla didattica nelle scuole e all’educazione degli adulti; queste attività hanno determinato un maggiore afflusso di visitatori nell’abitato e una notorietà nel territorio anche al di fuori delle consuetudini. Al prodotto - patata viene quindi frequentemente associata l’immagine di una frazione culturalmente ed umanamente vitale e viceversa le attività di divulgazione svolte con regolarità durante l’anno si avvalgono anche di questo prodotto tradizionale (ne è un esempio il progetto didattico rivolto alle scuole dell’obbligo della provincia denominato “La Scuola dei Nonni”, che vede un’importante voce focalizzata proprio sulla coltivazione della patata nei terreni terrazzati vicini all’abitato).

Si riporta che, negli ultimi tre anni di produzione, il prezzo delle patate è andato sensibilmente aumentando, con un picco di incremento tra il 2002 e il 2003 del 25%. Tale incremento è stato sicuramente supportato dal consumatore che ha aumentato la domanda, grazie anche a quest’insieme di attività e di valori aggiunti, oltre che al riconoscimento delle particolari qualità del prodotto.

Tra l’altro, le patate di Cetica trovano collocazione sul mercato al di fuori della consueta rete di distribuzione commerciale, utilizzando prevalentemente la vendita al dettaglio a singoli acquirenti che si recano personalmente dai coltivatori contattati in quanto conoscenti o perché presentati da terzi. Questo tipo di vendita richiama acquirenti sia della provincia di Arezzo che di Firenze. Negli ultimi anni, data la maggior propaganda, si registra un esaurimento del prodotto sempre più anticipato nel tempo (gennaio 2003 per la produzione 2002 e addirittura ottobre 2003 per la produzione 2003) con un’insoddisfazione della richiesta tale da indurre gli acquirenti ad effettuare una sorta di prenotazione per la prossima stagione produttiva.

Dal 2002 si è iniziato a commercializzare le patate prodotte a Cetica e vendute durante le manifestazioni organizzate dalla Pro Loco, in confezioni da 5 kg che specificavano in un’apposita etichetta contrassegnata dal logo della Pro Loco, il nominativo del produttore. Nel 2003 è stato realizzato un apposito logo da apporre sempre sulle confezioni da 5 kg ma da utilizzare anche per contrassegnare gli esercizi commerciali locali dediti alla vendita di questo prodotto.

Anche per il futuro si è pensato di proseguire con questa forma di commercializzazione e per la Patata Rossa di Cetica  \si intende realizzare a partire dal 2004 confezioni da 3 kg con un’ulteriore etichettatura dove oltre all’immagine del prodotto siano riportate anche le recenti vicende di recupero varietale e le indicazioni per un suo consumo ottimale.

Nel mese di Novembre 2003 è stata costituita l’Associazione Patata di Cetica con sede a Cetica, che raccoglie produttori e rappresentanti della comunità, allo scopo di promuovere e tutelare questo prodotto nella commercializzazione, incentivando le aziende e i singoli coltivatori ad utilizzare procedimenti produttivi atti a migliorare la qualità dei tuberi, promuovendo eventi culturali e gastronomici di sostegno alle attività produttive.

 

8. Allegati: BIBLIOGRAFIA CONSULTATA

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