LA STORIA DI CETICA
Cetica, frazione del Comune di Castel San Niccolò situata lungo l'alto Corso del Torrente Solano, si presenta come un insieme di piccoli agglomerati sparsi, ognuno distinto da un proprio nome, intervallati da Chiese molto interessanti. Il suo nome potrebbe derivare dal sostantivo ceduo (latino ceduus), indicante il tipo di governo del bosco, che viene tagliato periodicamente dai molti operatori che ancora oggi vedono nella montagna una risorsa ed un mezzo di sussistenza. Lo stesso nome con il quale gli abitanti chiamano il loro paese: "Cedica" sembra una diretta derivazione dell'antico appellativo. I conti Guidi, Signori della zona, possedevano una loro corte in Cetica individuata nel Castello di S. Angelo devastato dai fiorentini nel 1290 di ritorno da una spedizione nell'Aretino. Nel 1349 gli abitanti, uniti a quelli di Castel San Niccolò, Montemignaio e l'Alta valle del Solano, ribellandosi alla Signoria dei Guidi si dettero a Firenze, entrando a far parte della Podesteria della Montagna Fiorentina. Il forte legame con Firenze è ancora oggi sentito e testimoniato dall'appartenenza delle parrocchie esistenti alla Diocesi di Fiesole. Nel 1776, il 7 Settembre, il piccolo Comune di Cetica venne aggregato a Castel San Niccolò con Borgo alla Collina, San Pancrazio, Santa Maria e Garliano. Di particolare interesse, al fine di ricostruire l'assetto territoriale medievale, può essere la visita di alcuni luoghi:
- I ruderi del Castello di S. Angelo
- L’Antica sede podestarile, "casa Tribunale"
- Il Ponte romanico
- Le chiese di Impianto Romanico
- San Michele (un tempo S. Angelo), Santa Maria, San Pancrazio.
Il paesaggio al visitatore appare quanto mai tipico di queste zone: tornanti, cataste di legname, terrazzamenti coltivati, danno la misura del tipo di economia della zona, legata alla castagna, alla patata, alla lavorazione del legno, alla risorsa acqua, sfruttata un tempo da tre molini a pietra, dei quali resta testimonianza nel Molino del Balenajo, dove ancora oggi è possibile conoscere la tecnica della macinatura "a pietra". Un discorso a parte meritano I BAGNI DI CETICA: Località termale già nota nel 1205 quando si ha notizia della scomparsa delle acque a causa di una frana, e della loro ricomparsa nel 1686. Attualmente troviamo un semplice stabilimento termale, costituito da tre piccole stanze con vasche di acqua gelida: di rigore immergersi accaldati per usufruire dei benefici effetti dell'Acqua di San Romolo.
Il paese di Cetica, nella sua stessa conformazione che vede la presenza di piccoli nuclei abitati disseminati sul territorio, sembra suggerire le modalità del processo di antropizzazione che nel corso del tempo si è svolto sulle pendici del Pratomagno. Nuclei familiari assegnatari di piccoli lotti di terreno, intrapresero l'opera di costruzione del del paesaggio attraverso la coltura del bosco (bosco ceduo e castagno) e la costruzione di terrazzi e ciglioni per ricavare strisce pianeggianti da destinare ad ortaggi e cereali. I piccoli nuclei, poi sviluppatisi nel corso del tempo, presero il nome dalla famiglia che vi abitava: Casenzi, Casandoni, Callagnolo, (Casa di Angiolo), Casacocco, Camorello, Cafio (Casa del Fio, luogo pare ove si trovava la Casa di pena), Carenzi...
Il territorio della frazione di Cetica è ubicato ad una altitudine compresa tra i 600e i 700 m. s.l.m. Le colture ancora presenti, che un tempo garantivano la sopravvivenza della popolazione, sono quelle tipiche della montagna: castagne, legumi, patate e cereali. Attraverso un processo di adattamento progressivo alle condizioni climatiche e morfologiche della zona, si sono definiti due tipi di colture, con particolare riferimento ai legumi e alle patate, capaci non solo di resistere alla rigidità degli inverni, ma anche di prosperare con particolari risultati quantitativi e qualitativi. La buona riuscita delle coltivazioni è tuttavia da riferirsi principalmente alla particolare qualità della terra, terra "castagnola" come viene definita localmente.
29 GIUGNO '44 - PER NON DIMENTICARE:
60 lunghi anni sono passati da quel tragico 1944 che vide le nostre contrade sotto il terrore nazista, quei giorni di una lunga estate di sangue che fece della Toscana una terra di morte, distruzione e deportazione. Caduta Cassino, con la presa di Roma, la Toscana divenne il perno di tutto il sistema difensivo della "Linea Gotica o Linea Verde". All'avvicinarsi del fronte, il Maresciallo Kesserling intende rendere sicuri i luoghi dove si arresterà la prima linea tedesca, quindi ordina i grandi rastrellamenti in quelle zone rese insicure dalle forze partigiane, ormai forti, come i rilievi montani e i passi appenninici che i tedeschi segnavano con cartelli con scritto "Achtung-bandegebiet". Già nella primavera, con il grande rastrellamento della Falterona del 12 Aprile 1944 si è avuto visione della strategia nazifascista che cerca di recidere il legame tra la popolazione e i ribelli, così avvengono gli eccidi di Vallucciole, Partina, Moscaio, con centinaia di vittime innocenti, e con le distruzioni e il terrore si vuole piegare la gente dei paesi e delle campagne a interrompere l'aiuto morale e materiale che viene dato ai partigiani; aiuto che è doveroso non dimenticare, quello dato dalla Chiesa, che in particolare coi poveri preti delle piccole parrocchie, ha scelto di combattere con la Resistenza per la libertà. Anche l'azione di Cetica del 29 Giugno 1944 contemporaneamente a quelle di Civitella della Chiana - Cornia S. Pancrazio (223 morti) viene effettuata da reparti speciali della Wehrmacht nell'ambito della stessa operazione programmata (vedi K.T.B = 10 = N° 7) nei documenti dell'esercito tedesco ora consultabili dagli storici, nonostante i quali c'è ancora chi si ostina a dire che tutto avvenne perché i partigiani avevano ucciso dei soldati tedeschi, anche se ciò sicuramente aumentò la rabbia bestiale dei nazisti. Dal 26 Giugno, il II Battaglione del 3° Brandemurg era in marcia per Strada in Casentino per rinforzare il Koruck 594 che avrebbe dovuto attaccare il 29 i partigiani a Cetica, distruggerli e proseguire per il Pratomagno e sbaragliare la brigata "Lanciotto" che al comando di Potente rendeva insicure le vie di comunicazione tedesche del Casentino e del Valdarno. Ma per la prima volta le forze partigiane non solo resistettero, ma contrattaccarono, infliggendo forti perdite ai tedeschi che all'alba, guidati dai fascisti locali, avevano attaccato sicuri del successo dell'operazione. Durante la tragica giornata, rimasero uccisi 15 civili, mentre il piccolo centro montano ebbe centinaia di case distrutte dalle granate e dagli incendi, i partigiani ebbero 14 caduti e molti feriti. Ma nonostante la storia, per molti anni una parte del mondo politico ha tentato di sminuire l'apporto fondamentale dato dalla Resistenza alla liberazione del paese, non volendo riconoscere il giusto diritto di un popolo a combattere per la propria liberazione. Anzi, negli ultimi tempi, il vento del revisionismo ha raggiunto livelli impensabili, come mettere sullo stesso piano chi ha lottato per la libertà dei popoli, e chi ha combattuto insieme agli aguzzini dei forni crematori, cercando di rimettere in discussione il giudizio storico sulla Resistenza e il ruolo avuto dalla stessa sulle fondamenta della democrazia e della carta costituzionale. E' in questo clima che la piccola comunità di Cetica si appresta a festeggiare il 60° della Resistenza e della sua tragedia, commemorando i suoi morti e quelli partigiani, affinché si mantenga viva la fiamma di libertà e di giustizia per le quali molti nostri giovani scelsero di battersi, e molti dettero la vita. La lezione storica che la Resistenza ci ha lasciato: per il rispetto e la dignità dell'uomo è stata ripresa e rilanciata dal Presidente della Repubblica Ciampi che a Como ha detto: "Quello della Resistenza fu un sentimento diffuso che ebbe nei Partigiani la sua punta più avanzata e fu condiviso dalla maggior parte degli italiani, soprattutto i più umili, e dalla Resistenza nacque la Repubblica consacrata dalla costituzione". Questo autorevole giudizio crediamo sia da considerarsi definitivo.
IL COMUNELLO DI CETICA:
Da antichi documenti sappiamo che già all'inizio dell'XI secolo i conti Guidi avevano alcune proprietà a Cetica e che in seguito riuscirono ad espandere il loro dominio su tutta la valle del Solano. Verso la metà del Trecento quelle terre erano signoria del conte Galeotto Novello, del ramo dei Guidi di Modigliana, Poppi e Battifolle. Un cronista dell'epoca, Matteo Villani, racconta che costui era uomo crudele e dissoluto e che aveva a lungo maltrattato i suoi fedeli; così che, nel mese di marzo 1348, questi gli si ribellarono e gli tolsero il suo castello di San Niccolò e tutte le terre intorno.
Le comunità che si ribellarono al conte furono quelle di Vado, Garliano, S. Angelo e S. Pancrazio a Cetica. Queste, per scongiurare possibili rappresaglie da parte del conte, decisero di sottomettersi al comune di Firenze. I relativi atti vennero stipulati a Firenze, nel Palagio dei Priori (oggi Palazzo Vecchio) il 18 settembre 1349 e determinarono la nascita del comune di Castel S. Niccolò; questo venne suddiviso in quattro quartieri (le quattro comunità) ai quali vennero concesse particolari autonomie amministrative. La caratteristica di questa struttura (in seguito ne vedremo un altro esempio con il comune di Montemignaio, diviso nei due quartieri di Bacìo e Solatio) era dovuta al fatto che probabilmente le comunità della valle del Solano avevano goduto, già sotto il dominio dei Guidi, di alcune autonomie; autonomie che spesso i signori feudali erano costretti a concedere per cercare di arginare il progressivo sgretolamento del loro potere di fronte alle richieste dei popoli e delle comunità di dar vita a forme di organizzazione per la gestione degli interessi comuni. E' inoltre da tener presente che e quattro comunità presentavano caratteri diversi e distinti le une dalle altre e che intesero perciò conservare, all'interno del comune di Castel S. Niccolò, queste loro differenziazioni. Richiesta alla quale il comune di Firenze accondiscese di buon grado consentendo la costituzione dei quattro quartieri, riconoscendo alle stesse comunità il diritto di eleggere i loro rappresentanti per il governo del proprio quartiere e di partecipare, con questi, al governo del comune. Nacque così il comunello di Cetica che era costituito dai due quartieri di S. Angelo e di S. Pancrazio. Al tempo della Repubblica Fiorentina, fin quasi alla fine del XVIII secolo, si dissero "comunelli" quei comuni di piccole e piccolissime dimensioni (per territorio e popolazione), ma anche quelle comunità e quei popoli che, se pur in modo limitato, potevano godere di alcune forme di autonomia amministrativa. Il quartiere (o comunità) di S. Angelo era costituito da un solo popolo, quello della Chiesa prioria di S. Michele Arcangelo, dipendente dalla pieve di Vado. Il suo territorio era molto vasto e comprendeva tutta la vallata del Solano fino al crinale del Pratomagno a ovest e fino alla confluenza del fosso di Rimaggio a est. Il quartiere di S. Pancrazio comprendeva i due popoli di S. Pancrazio e di S. Maria e il suo territorio aveva per confini il Solano fino a Pagliericcio, Il torrente Scheggia, la valle del torrente Pistiano fino dl Pratomagno e alla Croce dl Cardeto. Ogni quartiere eleggeva periodicamente i propri rappresentanti, cioè un sindaco (chiamato anche governatore) e tre consiglieri, i quali nelle loro riunioni amministravano la comunità nell’ambito di quelle autonomie di cui si è detto. Il sindaco, a sua volta, rappresentava la comunità stessa nel governo del comune di Castel S. Niccolò, governo che era costituito dai sindaci dei quattro quartieri. L’ufficio del sindaco e dei consiglieri aveva durata semestrale; l'elezione era effettuata mediante estrazione da un’apposita borsa nella quale erano contenute le “polizze”, cioè foglietti sui quali erano stati in precedenza scritti i nomi di un sindaco e di tre consiglieri a lui abbinati. La competenza amministrativa dei due quartieri di Cetica comprendeva materie di varia natura. Importanti erano gli incanti dei beni pubblici, in particolare i mulini e la ferriera di Pagliericcio (i cui proventi, però, fino alla seconda metà del XVII secolo spettarono al comune di Castel S. Niccolò); i quartieri incameravano invece i proventi dei beni collettivi costituiti dalle “pasture” (pascoli di montagna) e dai “terratici” (appezzamenti di terreno parte boschivi e parte coltivabili), nonché i proventi di alcune attività commerciali (i macelli e le osterie). Vi erano poi i lavori di riparazione delle strade locali e dei ponti e il restauro delle Chiese. Argomenti particolari erano la nomina del maestro di scuola (che a S. Angelo troviamo fino dal 1575 e a S. Pancrazio solo dal 1702), la nomina del “predicatore” per il tempo della quaresima, la nomina degli ambasciatori (che venivano inviati nella città di Firenze quando si dovevano trattare questioni importanti con le magistrature fiorentine) e infine le norme per la vendemmia. Il quartiere aveva così le sue entrate e le sue uscite e redigeva ogni sei mesi un bilancio per mano del camarlingo; in caso di necessità si provvedeva a imporre il cosiddetto “dazio”, una specie di imposta diretta che veniva distribuita fra tutti i contribuenti in base ai coefficienti di estimo attribuiti a ciascuno. Oltre al camarlingo, il quartiere eleggeva anche alcuni “officiali” ai quali, dietro compenso, erano assegnate specifiche mansioni. Vi erano due “ragionieri” incaricati di controllare i bilanci del camarlingo; due “arbitri e stimatori” ai quali era affidata la composizione amichevole delle liti e la valutazione economica dei beni (ad esempio nelle compravendite); il “campaio”, sorta di guardia campestre che vigilava affinché non venissero arrecati danni alle coltivazioni e ai pascoli; il “rapportatore dei malefici” che aveva il compito di controllare le persone e denunciare al podestà i delitti di cui veniva a conoscenza.
Il comunello di Cetica rimase in vita fino al 1776 allorquando il granduca Pietro Leopoldo, nell’ambito di una grande riforma territoriale, sciolse tutte le vecchie unità amministrative della Toscana. Il 5 settembre di quell’anno venne costituito il nuovo Comune di Castel S. Niccolò comprendente, oltre alle quattro comunità di Vado, Garliano, S. Angelo e S. Pancrazio a Cetica, anche quella di Borgo alla Collina. Conseguentemente vennero abolite le autonomie amministrative di cui avevano goduto fino allora i singoli quartieri e cessarono le funzioni dei relativi governi.
La Podesteria di Castel S. Niccolò:
Dopo che le comunità della valle del Solano (Vado, Garliano, S. Angelo e S. Pancrazio a Cetica) si erano ribellate al conte Galeotto Novello (1348) e si erano poi assoggettate alla Repubblica fiorentina (1349) dando così origine al comune di Castel S. Niccolò, la Signoria vi insediò un podestà con il compito di "rendervi ragione nelle cause civili e criminali, a forma degli statuti di quei comuni".
Ricordiamo che la figura del podestà comincia ad apparire nei comuni toscani all'inizio del XIII secolo con il compito di rendere giustizia ai cittadini. Questo magistrato fu personaggio assai temuto per i suoi vasti poteri in campo giuridico e poliziesco tanto che, in seguito, l'importanza della sua carica venne alquanto ridotta, a Firenze, con l'istituzione del Capitano del Popolo.
Nei comuni non liberi (cioè assoggettati ad un comune dominante, come era Castel S. Niccolò rispetto a Firenze) il podestà era anche il rappresentante del governo centrale e, per questo, veniva sempre nominato dal comune dominante.
La durata della carica, inizialmente di un anno, venne poi ridotta a sei mesi, senza possibilità di rielezione.
Per essere certi della sua imparzialità, veniva normalmente reclutato al di fuori del comune, di solito nell'ambito di famiglie nobili e illustri.
Era dotato di solide conoscenze giuridiche, assistito da giudici e notai e accompagnato sempre da una scorta personale (i suoi "famigli") che incuteva timore e rispetto al suo passaggio.
Non tutti i comuni ebbero il podestà, ma solo quelli più importanti: questi si chiamarono allora podesterie.
Il primo podestà di Castel S. Niccolò, Lorenzo Megli Fagiuoli, venne nominato a Firenze il 10 novembre 1349.
Il territorio soggetto alla sua giurisdizione venne denominato Montagna Fiorentina (Montanee Florentine partium Casentini).
Oltre all'amministrazione della giustizia civile e penale, spettava al podestà di Castel S. Niccolò il compito di garantire l'ordine pubblico, nonché vigilare sull'osservanza degli statuti e delle leggi in vigore. In base agli statuti del comune egli doveva anche difendere le ragioni e gli interessi delle chiese, degli spedali, delle istituzioni pie e, in genere, delle persone più deboli quali vedove, pupilli, orfani e miserabili. Il podestà aveva l'obbligo di abitare, per tutta la durata del suo mandato, nel territorio della podesteria; la sua residenza venne inizialmente fissata nel castello di S. Niccolò, dove veniva anche amministrata la giustizia e si incarceravano i condannati. Verso la metà del Cinquecento i processi vennero spostati nel Borgo di Strada, nella cosiddetta "stanza della ragione"; esistevano anche tribunali minori (i cosiddetti "banchi") di Montemignaio, Ortignano e Borgo alla Collina, dove il podestà si recava periodicamente per "rendere ragione".
Non risulta, invece, la presenza di un banco nella comunità di Cetica, sebbene nella memoria popolare sia ancora vivo il ricordo di un edificio chiamato "Tribunale" nella località di Castagneto.
Inizialmente, il comune di Castel S. Niccolò e la podesteria della Montagna Fiorentina ebbero il medesimo ambito territoriale costituito dalle quattro comunità della valle del Solano.
In seguito la giurisdizione della podesteria venne ampliata, mano a mano che alla stessa venivano aggregate altre comunità limitrofe che, dopo essersi liberate dal dominio dei conti Guidi, si erano poi sottomesse alla Repubblica fiorentina.
Le prime furono le comunità di Ortignano, Giogatoio e Uzzano, che si erano sottomesse nel 1349 ed avevano poi costituito un autonomo comune, la cosiddetta "Valle Fiorentina".
E' interessante notare che queste comunità facevano parte della diocesi di Arezzo, mentre quelle della valle del Solano erano comprese nella diocesi di Fiesole.
Nel 1357 fu la volta della comunità di Raggiolo, nella valle del Teggina. Anche questa, pur costituendo un distinto comune, venne aggregata alla Montagna Fiorentina.
Nel 1441 anche i comuni di Montemignaio e Battifolle, che erano rimasti fino all'anno precedente sotto la signoria del conte Francesco di Poppi, vennero accorpati alla podesteria. In quello stesso anno la contessa Elisabetta donò al comune di Firenze il suo castello di Borgo alla Collina; con i relativi atti di sottomissione, anche gli uomini di quel castello vennero sottoposti alla giurisdizione del podestà della Montagna Fiorentina.
Al termine di tutte queste aggregazioni, la podesteria comprendeva i seguenti comuni:
- comune di Castel S. Niccolò (con le comunità di Vado, Garliano, S. Angelo e S. Pancrazio)
-comune di Borgo alla Collina
-comune di Ortignano
-comune di Raggiolo
-comune di Montemignaio (con i due popoli di Bacìo e Solatio)
-comune di Battifolle (con i popoli di Caiano, Castello, Ristonchi, S. Biagio, Startia e Vertelli).
Tutti questi comuni contribuivano alle spese della podesteria e, in particolar modo, al salario del podestà che era fissato in 670 lire per sei mesi.
Nel XV secolo, la Repubblica fiorentina istituì i "Vicariati" ai quali affidò l'amministrazione della giustizia penale: al podestà rimase pertanto la sola giurisdizione civile. Il vicariato del Casentino, istituito il 21 aprile 1441, comprendeva le podesterie di Poppi, Pratovecchio-Romena, Montagna Fiorentina e Bibbiena.
Il vicario risiedeva a Poppi, nel castello già dei conti Guidi dove aveva sede anche il Tribunale.
Dopo le riforme amministrative attuate dal granduca Pietro Leopoldo nel 1776, la podesteria comprendeva i comuni di Castel S. Niccolò (al quale era stato aggregato Borgo alla Collina), Montemignaio (con Battifolle), Ortignano e Raggiolo.
La podesteria di Castel S. Niccolò (col tempo era stata progressivamente abbandonata la denominazione di Montagna Fiorentina) restò in vita fino alla prima metà dell'800 allorquando il granduca di Toscana, con decreto del 2 agosto 1838, soppresse la podesteria riunendo la sua giurisdizione a quella del vicariato di Poppi.
La Badia delle Pratora in Pratomagno:
Lungo l’antica strada che collegava il Casentino con il Valdarno superiore attraverso il varco di Gastra, in un pianoro posto sulle pendici orientali del Pratomagno, sorgeva un tempo la Badia, o spedale di S. Romolo alle Pratora (S. Romolus in Pratis).
Ricordiamo che la parola ospedale deriva dal latino hospitale (hospitalia erano chiamate le stanze per gli ospiti) e che nel Medioevo erano così chiamati gli ospizi nei quali si accoglievano viandanti e pellegrini. Questi erano solitamente ubicati lungo le strade più frequentate per offrire un ricovero per la notte e le strutture ricettive erano in genere composte da due sole stanze (una per gli uomini e una per le donne e i fanciulli); quelli più modesti avevano invece un unico stanzone dove si accoglieva in promiscuità.
Di questo spedale, che era stato edificato dai monaci dell’Abbazia di S. Fedele di Strumi, si ha memoria fin dal 1262 quando l’Abate annotò nei libri di ricordanze del monastero che «in quell’anno era ripieno di conversi del nostro ordine». Ai monaci di S. Fedele spettava pertanto l’elezione del castaldo, o spedalingo. Sempre nel 1262 l’Abate di S. Fedele, don Andrea, trovandosi nella Badia delle Pratora, dopo avere ottenuto il consenso dei conversi presenti, elesse per castaldo di detto luogo fra Pigello, converso, al quale tutti promisero obbedienza.
Lo spedale delle Pratora era chiamato anche ”spedale dei poveri”; vi si accoglievano infatti non solo viandanti e pellegrini, ma anche persone senza mezzi di sostentamento e vecchi senza famiglia. Ne sono prova le “portate” per gli Estimi del contado fiorentino: in una di queste, presentata nel 1401 da Martino di Biondino del popolo di S. Angelo a Cetica, si legge che questi, senza più parenti ed in età più che avanzata, si trovava «con ogni suo bene nello spedale delle Prata».
Lo spedale possedeva numerosi appezzamenti di terre castagnate, selvatiche, arative, prative e vignate. La maggior parte di queste terre (frutto anche di lasciti testamentari di persone devote) si trovava intorno allo spedale e costituiva il nucleo principale dell’intera proprietà che, anticamente, veniva coltivata dagli stessi conversi. Le rendite di queste terre dovevano essere spese interamente «in uso e beneficio dei poveri» e servivano per il mantenimento delle persone che vi abitavano, e anche degli edifici (lo spedale, oltre ai locali di accoglienza, comprendeva le stanze dei conversi e la chiesa con campanile). Nel 1428 la rendita dello spedale ammontava a 50 fiorini. Lo spedale doveva però pagare annualmente all’Abbazia di S. Fedele, in occasione della festa del suo patrono, un censo, o tributo, che nel 1474 era costituito da «un paio di porci grassi». A sua volta l’abate di S. Fedele, per la festa di S. Romolo, doveva recarsi alla Badia, o mandarvi uno dei suoi monaci, per cantare la messa.
Nel 1538, poiché aveva rinunciato al suo incarico lo spedalingo don Benedetto da Passignano, l’abate di S. Fedele costituì suo procuratore l’abate generale di Vallombrosa, Giovanni Maria Canigiani, perché provvedesse a conferire il nuovo incarico. Questi elesse allora per abate delle Pratora don Benedetto d’Arpinuccio da Poppi che, nel 1544, ottenne un breve pontificio col quale venivano estesi alla Badia delle Pratora tutti i privilegi concessi agli altri monasteri vallombrosani; breve che egli portò con sé quando, nel 1559, venne trasferito al monastero di S. Mercuriale di Forlì. In quello stesso anno l’abate di S. Fedele conferì lo spedale delle Pratora al converso fra Mariotto e successivamente, in seguito alla rinuncia di questi, a don Eusebio da Borgo alla Collina.
Nel frattempo i beni dello spedale cominciarono ad essere affittati a privati. Risulta, ad esempio, che nel 1571 tutti i beni vennero affittati per un anno a Jacopo Tommasi dalla Strada per un canone di 38 scudi e 350 libbre di carne; il Tommasi doveva inoltre pagare un cappellano per officiare la chiesa delle Pratora. Nel 1580 le Pratora vennero affittate per 3 anni a ser Bartolo Vannelli, rettore della chiesa di S. Maria a Cetica, per 40 scudi e 350 libbre di carne, con l’obbligo di celebrare la festa di S. Romolo e far dire due messe al mese nella chiesa.
Il 6 luglio di ogni anno si celebrava la festa di S. Romolo, santo titolare della Badia. In quella occasione l’abate di S. Fedele si recava personalmente alle Pratora, o inviava un suo monaco, per celebrare la messa, con grande partecipazione del popolo di Cetica. La festa venne abolita dal vescovo di Fiesole verso la metà del Settecento perché il popolo «ballava, giocava e faceva altri trattenimenti poco convenienti alla Santa Comunione». Si continuò però con la tradizione di celebrare la messa.
L’inverno del 1634 fu fatale per la Badia. L’11 dicembre una grande nevicata fece crollare tutti i tetti della chiesa e delle case. Solo per miracolo non vi furono vittime. L’anno successivo si mise mano ai restauri degli edifici ma, nonostante ciò, la Badia non riuscì più a risollevarsi e venne in pochi anni abbandonata. Il 3 gennaio 1644 il papa Innocenzo X trasferì al nuovo monastero di Pomaio, presso Arezzo, i privilegi spirituali della Badia ormai abbandonata perché posta «in loco deserto, alpestri, horrido, et nimis frigoris asperitate subpositum, temporum iniuria dirutum».
Gli edifici dell’antico ospedale vennero pertanto trasformati in stalle, magazzini e casa colonica perché vi erano pur sempre i castagneti e i terreni da coltivare. Per quanto riguarda la chiesa, si sa che già nel 1720 era rovinato parte del tetto, che venne però ricostruito. Il campanile, che minacciava rovina, dovette essere abbassato e restaurato. In seguito alcuni locali vennero adibiti a romitorio e si ha notizia che nel 1738 questo venne assegnato a fra Modesto Zanchelli, terziario di S. Fedele, con l’incarico di provvedere alla coltivazione dei terreni dai quali avrebbe potuto trattenere la metà del frutto per il suo mantenimento. Nel 1764 il romitorio venne assegnato a fra Giovanni Gualberto Bartoli, ma questi preferì rinunciare.
Nel 1777 l’abate di S. Fedele visitò le Pratora e trovò la chiesa in pessimo stato tanto che, a suo dire, sarebbe stato più conveniente lasciarla rovinare piuttosto che sopportare costosi lavori di restauro. Così, senza più interventi di riparazione, l’antico edificio crollò e se ne possono vedere i ruderi nella località ancora oggi conosciuta come “la Badia”.
L’abate di S. Fedele cedette successivamente i terreni ed i castagneti e di quello che era stato un antico luogo di accoglienza e di preghiera non rimasero che stalle, ovili e abitazioni di contadini. Poi, con il tempo, anche queste sono state abbandonate e oggi, di quel luogo, non restano che pietre e silenzio.
Marco Porcinai
Cetica e la Valle del Solano nel Medioevo:
Archeologia territoriale nel Casentino dei Guidi
Nell’ambito del progetto “I Guidi fra Pratomagno e Casentino: letture archeologiche di una signoria territoriale appenninica”, inserito a sua volta nel progetto strategico di ateneo intitolato “La società feudale nel Mediterraneo”, e nell’ambito delle attività dell’Ecomuseo del Casentino, l’Università degli Studi di Firenze, nella persona del prof. Guido Vannini (Cattedra di Archeologia Medievale), ha elaborato, in accordo col C.R.E.D. dell'Unione dei Comuni Montani del Casentino, il progetto di collaborazione tra Università di Firenze, C.R.E.D. e Liceo Scientifico G. Galilei di Poppi, dal titolo “Archeologia medievale in Casentino, tra ricerca e opportunità didattica”, il quale ha coinvolto direttamente gli alunni partecipati nelle attività di ricerca della Cattedra di Archeologia Medievale dell’Università degli Studi di Firenze.
La prima fase del progetto risale agli anni 2003-2004 e concentrò la propria attenzione sul sito di Castel San Niccolò; la seconda fase, che si colloca tra la fine del 2005 e l’inizio del 2007, ha allargato l’indagine al territorio in cui il castello di San Niccolò si inserisce. Con metodologie ancora appartenenti all’“archeologia leggera” (l’archeologia che si basa su letture stratigrafiche di superficie e degli elevati, con sondaggi mirati su aree campione, utilizzando tecniche di indagine non distruttive come lo scavo e lo strumento informatico per la rielaborazione dei dati), si è passati dall’analisi stratigrafica delle strutture murarie di un castello (Castel San Niccolò appunto) alla ricognizione archeologica dei siti incastellati del contesto a cui Castel San Niccolò appartiene, dall’una all’altra, cioè, delle discipline che si inquadrano nell’ambito di quella che viene definita “archeologia leggera”: l’“archeologia degli elevati” (che applica il metodo della lettura stratigrafica utilizzato per le stratificazioni orizzontali, in ambito di scavo, alle superfici verticali delle strutture edilizie) e l’“archeologia del territorio” (la quale considera il territorio come una pluristratificazione di paesaggi storici che deve essere indagata sia estensivamente, cioè prendendo in considerazione la totalità delle evidenze archeologiche presenti, sia intensivamente, cioè considerando in maniera interdisciplinare ogni indizio storico contestualizzandolo).
Il contesto territoriale a cui Castel San Niccolò appartiene corrisponde a un’area ben connotata all’interno del panorama di quella porzione di Casentino che nei secoli centrali del Medioevo fu sotto il controllo dei conti Guidi; il Casentino guidingo (come dimostrato da recenti lavori di ricerca tra i quali soprattutto la tesi di laurea del sottoscritto), può infatti essere suddiviso in quattro insiemi coerenti di castelli con caratteristiche comuni, che corrispondono inoltre a quattro aree anche geograficamente unitarie, identificabili coi bacini idrografici dei maggiori corsi d’acqua altocasentinesi: la valle del torrente Teggina (confine meridionale del territorio dei Guidi a destra d’Arno), il territorio compreso tra il corso dell’Archiano e quello della Sova (confine meridionale del territorio dei Guidi a sinistra d’Arno), la valle dell’Arno (soprattutto sulla sua sponda destra, dove correva la principale arteria della viabilità storica della valle) e la valle del torrente Solano e dello Scheggia suo affluente. È quest’ultimo il territorio preso in considerazione dal progetto in questa seconda fase e queste sono le caratteristiche comuni dei quattro castelli che ad esso appartengono (Castel San Niccolò, Cetica, Battifolle, Montemignaio):
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Rapporto con la medesima direttrice viaria: la principale via fiorentina casentinese, che si stacca dalla strada lungo l’Arno proveniente da Arezzo per seguire il corso del Solano e dello Scheggia, o la sua diramazione che continua a seguire il Solano e, passando per Cetica e Bagni di Cetica, si dirige in Valdarno, nella zona guidinga di Poggio alla Regina.
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Appartenenza al medesimo ramo dopo le divisioni duecentesche della famiglia Guidi: quello originatosi da Guido VIII detto Guido il Vecchio, pur nelle sue divisioni interne (Guidi di Battifolle e Guidi di Bagno).
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Affinità cronologiche per quanto riguarda l’attestazione della presenza guidinga nei siti e l’incastellamento di questi: presenza dei Guidi attestata fin dal 1029, tardivo incastellamento di secolo XIII, definitivo passaggio a Firenze nel 1359 (dopo la rivolta dei sudditi contro il conte Galeotto di Castel San Niccolò e l’istituzione della podesteria della Montagna Fiorentina)
Affinità toponomastiche dei siti incastellati: denominazione indifferente alla precedente toponomastica e facente esplicito riferimento alle fortificazioni (Castel San Niccolò, Castel Sant’Angelo, Castel Leone, Battifolle).
Il sito di Cetica non fa eccezione per quanto riguarda queste caratteristiche proprie dell’insieme cui appartiene e, dal punto di vista delle vicende storiche, resta da aggiungere solo un episodio che riguarda sia il castello sia la viabilità che questo controllava, tramandatoci dal Villani e risalente al 1290: i Fiorentini, di ritorno da una spedizione contro Arezzo successiva alla vittoria guelfa a Campaldino, distrussero il castello di Cetica, ma anche, lungo la direttrice viaria cui si è fatto cenno, quello di Poppi e quello di Castiglion della Corte in Valdarno (il già citato sito di Poggio alla Regina, in cui il più che decennale scavo archeologico dell’Università di Firenze ha potuto individuare materialmente le tracce della distruzione fiorentina attestata nelle fonti scritte). Questo scavo ha restituito anche un’altra testimonianza del legame tra Castiglion della Corte e Cetica: nella campagna del 2003 sono venuti alla luce due sigilli guidinghi (il secondo rinvenuto personalmente dal sottoscritto), appartenenti rispettivamente a Bastardo di Guido Guerra e a suo figlio Simone, mentre un terzo, consegnato successivamente da un appassionato locale che lo aveva rinvenuto anni prima, reca il nome del notaio Paolo Benevieri da Cetica, appunto.
Dal punto di vista delle strutture materiali superstiti (direttamente ricognite e schedate con gli alunni del liceo partecipanti al progetto, in data 17/03/’06), il sito di Castel Sant’Angelo di Cetica (localmente noto col microtoponimo di “Castello” o “Castellina”) si presenta, analogamente a quello di Battifolle in questo stesso contesto territoriale, come un castello abbandonato di cui sopravvivono pochissime strutture in elevato affioranti dal terreno, attualmente coperto di vegetazione boschiva. Di queste strutture murarie conservatesi, alcuni tratti sono stati portati alla luce da scavi recenti non regolari, a cui ha fatto cenno la fonte orale interpellata, e mostrano una tessitura muraria curata, con blocchi squadrati di medie dimensioni messi in opera con letti e giunti abbastanza sottili. Uno di questi brani di muratura portati alla luce mostra l’angolata di una struttura poligonale costituita da conci appositamente lavorati ad angolo ottuso (forse una torre limitanea del recinto murario interno, sul modello di quella presente, per esempio, a Castel Focognano). In una posizione abbastanza centrale della parte più alta del poggio, si trovano invece i resti di una cisterna molto vicina, nella forma e nelle dimensioni, a quelle di altri castelli casentinesi guidinghi (Battifolle, Fronzola): la pianta è quadrangolare e la copertura è costituita da una volta a botte, crollata per una metà ed anche al centro della metà superstite (forse in corrispondenza della botola). Le pareti interne sono rivestite da cocciopesto di colore rossastro e sulla parete del lato corto conservatosi si nota un foro che corrisponde alla tubatura fittile di un sistema idraulico non elementare.
Dott. Riccardo Bargiacchi
Università degli Studi di Firenze